Και μάλλον Έλληνες καλείσθαι...

"Και μάλλον Έλληνες καλείσθαι τους της παιδεύσεως της ημετέρας ή τους της κοινής φύσεως μετέχοντας" ΙΣΟΚΡΑΤΗΣ

(“Siano chiamati Elleni gli uomini che partecipano della nostra tradizione culturale più di quelli che condividono l'origine comune” ISOCRATE)

6 febbraio 2013

Ioanna Karistiani tradotta a 24 mani


Un'estate fa, alla Casa delle Letterature di Lefkes, delizioso paese dell'isola di Paros nelle Cicladi, la lingua greca e quella italiana si sono incontrate in occasione di un seminario di traduzione organizzato da Paola Maria Minucci, docente della Cattedra di neogreco della Sapienza. 
Dodici studenti, in un'atmosfera gioiosa e prolifica, hanno lavorato su alcuni racconti inediti della nota scrittrice Ioanna Karistiani, sotto la guida di Maurizio De Rosa (suo traduttore per l'Italia) e della stessa Paola Maria Minucci, ovviamente.




Le due settimane di seminario, condito col buon cibo isolano e arricchito dalla bellezza dell'isola, si sono concluse con un incontro pubblico tra i giovani traduttori filellenici e l'autrice cretese, in una calda e gioiosa serata agostana.
Due dei racconti tradotti sono stati pubblicati sulla rivista fondata e diretta da Camilla Miglio: il Porto di Toledo, dove potrete leggere anche la dettagliata e calorosa narrazione di questa bella esperienza, scritta dalla docente Paola Maria Minucci.

Qui vi propongo la lettura del primo racconto:

Sula non si dà per vinta


Era il buon carattere a salvarla, Sula. Non si crogiolava nell'amarezza  non sapeva cosa fossero l’astio e la boria. Guidava con cautela e svoltava con dolcezza.
Quando sentiva qualcuno elogiare gli orizzonti della Tracia, di Creta, del Peloponneso, glielo lasciava fare. Perché guastargli l’amore per il proprio paese? Perché rinfacciargli che gli orizzonti della Macedonia, di quella occidentale cioè, la sua terra, con tutti quei boschi a farti compagnia, le montagne a scuoterti e i cieli a darti la carica, sono i migliori?
L’altro giorno aveva aperto il pacco e invece di bigliettini di Buon Natale e Felice Anno Nuovo 2011, ordinazioni da parte di bar dei villaggi e di chioschi di strada, aveva trovato un pacco di Buona Pasqua e grandi uova rosse di cartone. Telefonò all’istante a Galagala, il re della gaffe e della iettatura, il fisco gli aveva sequestrato la casa.
Buona Pasqua, gli aveva augurato, si misero un po’ a ridere e tutto bene.
Il suo modo di fare era eredità del nonno, operaio pellicciaio, una vita in mezzo al cuoio, al martello, al raschietto e alla tavola da lavoro, immerso tra i mucchi di scampoli di pelle, che, dopo quarant’anni a produrre beni di lusso, era riuscito a omaggiare sua moglie con un collo di pelliccia e sua figlia con una pelliccia di lepre.
Essere avidi è un disonore e lamentarsi rode come un tarlo, diceva, la nostra salvezza è il buon cuore, eleva anche lo spirito, è questo che ci fa uomini e non i visoni e le volpi.
Quando Sula beccò il marito con la vicina, invece di incazzarsi e pensare che quello stronzo si meritava un buco in testa, sbatté la porta dietro di sé, camminò per due ore tra i giunchi e i canneti del lago riflettendo sulle cose che nella sua vita erano migliorate da quando era bambina.
Uno, non aveva più geloni e verruche, due, non c’era più suo padre a picchiarla, tre, non c’era più la maestra di Patrasso che le dava della cretina tutto il tempo, quattro, finalmente si era liberata di quel buono a nulla di suo marito, non c’era volta che il suo portafoglio fosse pieno, e cinque, la cosa migliore, aveva appena preso la patente e poteva trasportare con il furgone le casse di mele.
Tornò, prese l’auto e se ne andò come se niente fosse, senza nemmeno prendere il servizio buono di piatti e posate del matrimonio, li lasciò in dote a quel fannullone. Prese con sé solo la figlia, l’aspettò all’uscita da scuola.
Anche dalle disgrazie si può trarre beneficio, anche con le carogne si fanno le pellicce.
Ogni nuovo giorno ne aveva parecchi di vestiti nel suo armadio, poteva scegliere quello che voleva, andavano bene tutti eccetto quelli neri. Occhio alle grucce.
Tempo addietro, in compagnia di altri colleghi maschi, avevano tirato fuori gli incassi, non un granché, non c’era lavoro, la conversazione era divagata, si arrivò tanto per cambiare alla solita solfa qualunquista, a dire che in Grecia le mani le usiamo parecchio, per spolpare le costolette, per prendere a schiaffi i nostri figli, per mandare a quel paese il vicino, per applaudire il capo, per suonare il claxon, per lanciare i dadi, per scaccolarci il naso, per grattarci le palle.
Sula non li sgridò, ma si limitò ad aggiungere: per piantare alberi, per pestare il peperoncino nel mortaio, per accarezzare la nipote, per chiudere gli occhi dei genitori.
Prima di andarsene gli augurò buona strada; ogni augurio, che sia una riga o anche solo due parole, sembra una storia, con un inizio una parte centrale e una fine.
Il mestiere ha molte strade e ogni strada ha molte storie.
Faceva la venditrice ambulante da ventiquattro anni, quasi venticinque, con sede Elassòna, una nuova casa, un nuovo inizio, caricava l’auto e ogni giorno correva in un posto diverso, ad Argos Orestikòs, a Sèrvia, a Domokòs, a Flòrina, a Prespes.
Montava il banco e si metteva a vendere. Fagiolini, peperoni rossi, pantofole, grembiuli, biancheria intima, stivali, filati, pettini per pidocchi, lucchetti, molle da camino, carte da gioco.
Quand’era stagione raccoglieva i ribes, e vendeva anche quelli. Raccoglieva porcini e ceppatelli sui pendii, erano diventati un cibo alla moda, rendevano bene, li compravano anche quelli di passaggio.
Vendeva anche uova, gliele tenevano da parte alcuni vecchi nei paesi.
Aveva cresciuto la sua unica figlia senza farle mancare niente, andava a tutto gas con la macchina per riuscire a trovarla sveglia la sera, a sedersi a tavola, figlia, madre e nonna, la loro vecchia era vissuta finché i suoi ebbero bisogno di lei. La sua Damianì si era sposata a Ghiannitsà, lei le mandava ancora soldi, il marito era un ragazzo d’oro ma un cretino, non aveva portato che quattro campi da niente.

Sula si era fatta le ossa sulla strada. Non più giovanissima, cinquantatrè anni suonati e non si fermava un attimo, girava in lungo e in largo da sola ed era felice.
La Macedonia è qualcosa di bello.
Le veniva voglia di erba grassa? Ce l’aveva.
Le veniva voglia di folate di vento? Il lago di Prespes le correva in aiuto.
Riparava il motore della station wagon, un ronzino di dieci anni, metteva le gomme da neve, sistemava alla meno peggio i tergicristalli rotti. L’auto a volte era la sua padrona e a volte la sua schiava.
Le piaceva stendere uno strofinaccio sul cofano e fare uno spuntino con pane e formaggio. E ogni mezz’ora si fermava per fumarsi una sigaretta fuori, per non far puzzare l‘abitacolo, a volte il lavoro la travolgeva, aveva troppo sonno per guidare fino a casa e passava la notte in macchina, dietro teneva un materasso di gommapiuma arrotolato.
In passato, per ogni evenienza, teneva con sé un coltello a serramanico dei rinomati, al tempo, coltellinai di Argos Orestikòs, con il fodero e il manico in corno.
Dall’anno precedente, quando due albanesi avevano pedinato, accoltellato e derubato Vlontzos, quello delle coperte, Sula aveva fatto come la maggior parte dei venditori che andavano in giro nei luoghi isolati e si imbattevano in bande di malfattori. Si era procurata qualcosa di meglio.
Sula non si dava per vinta, non ne aveva intenzione, la sua vita erano i chilometri e gli scambi con i fornitori e con gli altri ambulanti, il mercato, la merce, la cassa, il chiasso del mercato.
E siccome vantava ancora un décolleté invidiabile, una volta ogni tanto si faceva un goccetto con qualcuno che la ispirava, suonatori di orchestrine ambulanti con gli ottoni, o timidi garzoni albanesi; era così che andava quando la bottiglia di tsìpuro si svuotava e la mente cominciava a ballare lo tsàmiko1.
A settembre, ad Argos Orestikòs, il mercato numero uno in Grecia, aveva fatto un sacco di soldi, aveva svenduto i perizomi, le giarrettiere, gli stivali, gli scarponi, le teglie antiaderenti e, quando ormai era mezzanotte, dopo diversi bicchierini e due padellate di salsicce con polpa di pomodoro sul fornelletto del vicino, venditore di vestiti da uomo e carbone, gli aveva detto levati questa cravatta che ti taglia il petto in due, e fece l’amore con lui nel suo furgone.
Naum Sìsuras si rivelò all’altezza di una notte come si deve. Ci vuole anche questo.
Ogni anno a dicembre, sotto le feste, le richieste e gli ordinativi erano ben altri e Sula non si fermava un attimo, saliva ogni giorno ai paesi.
Organizzava le consegne di minestre calde e trachanàs2 ai rifugi di montagna, ascoltava le lamentele per i dipendenti pubblici, un tempo buoni clienti e ora scomparsi a causa della crisi, portava alle ville in campagna quello che le chiedevano, le persone istruite volevano a tutti i costi sgabelli tipici, tinozze di una volta, utensili da concia d’epoca e mantelli da pastore. Glieli procurava, glieli vendeva a peso d’oro. Con la stessa benzina dava una mano anche alla povera gente, le facevano pena i vecchi soli e senza un soldo, le pensioni ridotte all’osso non bastavano per i biglietti per scendere in città a fare due spese.
Gli portava giubbotti e vestaglie a prezzo di costo, qualche a volta anche a credito, faceva regali quando doveva e quando poteva, portava un dolce o biscotti da caffè. Le faceva bene ascoltare, anche se al volo, le loro storie, storie di guerra, di mine a frammentazione, di emigrazione, di ossa, di muli, di danze, poi gli rubava qualche bella parola e la portava ai più giovani, spazio e tempo sono il più solido dei matrimoni.
Questo significa oggi girare per la Macedonia occidentale.
Le faceva compagnia la radio, quel rottame non prendeva dappertutto, stazioni locali, clarinetti, fisarmoniche, zampogne e notizie del posto, discorsi dei sindaci e dei preti, orsi uccisi sull’autostrada, suicidi per debiti con le banche, quel tale, lo stagnino che si era impiccato per quei diecimila euro, lo conosceva, era un uomo giovane.
Anche lei aveva debiti, pazienza. Ma anche crediti. Le dovevano soldi sia greci che albanesi, la roba che compravano da lei la mandavano a casa, dalle madri. Non metteva il coltello alla gola a dei disgraziati.
Era una vita che lavorava come un cane, quand’era giovane girava scalza per i campi, tanto che i talloni e le piante dei piedi sembravano zoccoli di cavallo, e da grande portava i pesi come uno scaricatore, e le mani le erano diventate ruvide come le pelli grezze dei conciatori.
Sarebbe andata avanti a modo suo, a tutti i costi.
Oggi, la vigilia di Natale, ha messo il banco al mercato, ha venduto fagioli, peperoncino, fornelletti e babbi natale di plastica, ha comprato per sé anche lucette e un alberello di natale, da addobbare la sera, per farlo vedere ai vicini tutto illuminato alla finestra, tutti dovevano sapere che Sula non si dà per vinta.
Aveva pensato di fare un salto a Ghiannitsà, ma Damianì aveva invitato il padre a vedere la nipotina di un anno. Non importa, Sula era abituata alle mura vuote.
Prima di passare da casa aveva però certe questioni da sistemare. Fece rotta per la montagna.
Incrociò i fuoristrada degli sciatori, degli escursionisti e delle guardie di confine, entrò nei boschi di faggi, superò un paio di paesini, arrivò a Profeta Elia, una chiesetta isolata.
Parcheggiò, la stavano già aspettano in cortile, la porta era chiusa a chiave. Cinque donne di mezza età e oltre, vedove e divorziate, tutte vecchie clienti che abitano una qui e una lì, Sula non riusciva a fare le consegne a domicilio e le aveva avvertite col cellulare, erano arrivate puntuali, impazienti di avere il regalo, curiose e soprattutto ammiratrici della grintosa Sula, era una star per la sua abilità alla guida, la sua astuzia e la sua lealtà.
Strette di mano, abbracci, auguri, le ultime novità dette al volo, Sula-Babbo Natale ci sapeva fare, distribuì i sacchetti di plastica, dai provateveli, che così finalmente vi vedo con qualcosa di colorato.
Gli aveva portato dei kimono giapponesi, non autentici ovviamente, roba cinese da quattro soldi, ma belli e allegri, rossi, gialli, azzurri con draghi dorati.
Le montanare rimasero sbalordite, ma li indossarono sopra i vestiti neri, strinsero le cinture, si misero a ridere e, come le modelle della trasmissione della Menegaki, cominciarono a sfilare nel cortile della chiesa.
Brave, vi stanno bene. Tra due settimane torno con gli sgabelli in macchina, lo faccio diventare uno scuolabus, vi carico su e, vestite così, da geishe, vi porto a fare un giro giù a Rangustarìa, per fare quattro salti.
La più vecchia, Iordana, il cui marito se l’era svignata dietro alle Tettoske e alle Sederoske, le porge una pagnotta di pane casereccio, che Sula annusa e bacia. Le ricorda quei bei panini che le cuoceva la madre.
Salì sulla station wagon e diede gas, per non essere sorpresa dalla notte che stava calando in fretta.
Altri monti, altri boschi, altre sterrate.
Guardò l’orologio, accostò e aspettò, era l’ora. E infatti, arrivò puntuale come uno svizzero. Lo vide da lontano con i suoi cinque cani da pastore. Uscì dall’auto, gli fece le feste.
Christos Gotsis, vecchio scapolone settantenne, prima non prendeva i tranquillanti perché lo facevano dormire e non riusciva a svegliarsi per mungere gli animali. Da quattro anni aveva venduto le sue trecento pecore e da allora ogni giorno andava al pascolo sui monti senza gregge, con i suoi cani.
La pensione per infermità mentale con il 67% di invalidità, figùrati se bastava; viveva ancora nell’ovile vuoto, sotto un tetto di lamiera arrugginita.
L’aveva conosciuto da giovane, i primi tempi che girava per le pianure e le montagne e siccome lui non sapeva scrivere, l’aveva pagata bene perché lo aiutasse a sbrigare le pratiche per il rimpatrio delle ossa della sorella, che era morta in FYROM3.
Erano andati insieme al confine, avevano preso la cassetta, l’avevano portata per una notte nella casa della morta, quattro mura senza tetto, la mattina seguente l’avevano sotterrata in un angolo del cimitero.
Gli diede i suoi regali, un piumino, un sacchetto pieno di riso spezzato per i cani e due stecche di sigarette.
Ne fumarono una insieme, chiacchierarono.
Il mio mantello l’ho appeso a un cespuglio, le disse. Sono pronto. Che ne sarà dei cani, penso. Probabilmente pensava anche ad altre cose, nei suoi occhi quella malinconia sempre di troppo per il passato che ci sbuffa il suo fiato sul collo.
Molto più tardi, erano le nove in punto e Sula era ancora sui monti bui. Era rimasta a secco in una mulattiera, il cellulare non prendeva, non c’era anima viva. Salire sulla cima per avere più segnale, era lontano e si moriva di freddo. Andare a piedi, con la carrozzabile ci volevano 40 minuti e a quell’ora chi vuoi che passasse a raccattarla, tutti erano a casa, al calduccio e a mangiare il tacchino.
Recitò una preghiera, col tempo anche queste le ripeteva a pappagallo, portò la carabina davanti, sempre carica, non si sa mai, aveva persino i proiettili di riserva.
Il tempo passava, il freddo penetrava nelle ossa, si avvolse intorno al collo anche la pelliccia di lepre della madre, che teneva sempre in macchina, era quel che si dice un cimelio di famiglia.
Teneva gli occhi bene aperti cercando di scorgere in lontananza fari di auto o qualche movimento sospetto, negli ultimi anni era successo di tutto, un sacco di gente era stata massacrata, uomini grandi e grossi li avevano fatti neri di botte, molte auto erano finite in Albania.
Comparve un branco di cinghiali, saranno stati una dozzina, che correvano su una scarpata.
Sula si affrettò ad abbassare il finestrino, prese la mira. Uccise l’ultimo, lo trascinò in macchina. Stimava che una volta scuoiato sarebbe pesato circa trenta chili.
Con chi fare banchetto? Il giorno dopo lo avrebbe portato come un trofeo, pensava di farci bei soldi, quando c’era da fare la festa ai maiali perdevano tutti la testa.
Pensava che era stato il Profeta Elia a mandarlo per ricambiare la sua generosità con le ragazzine stagionate e con l’afflitto sestetto del pastore e dei suoi cani. Non si spiegava altrimenti il colpo ben riuscito, quando tutte le lepri della Macedonia erano sfuggite alle sue pallottole.
Buttò giù un bicchiere di tsìpuro per riscaldarsi dentro, forte al punto giusto, dalla botte di Naum.
Sula Salvarina se la sarebbe cavata alla grande anche quella sera, aveva tutto ciò che desiderava.
Cime innevate, il cielo stellato, un alberello di natale dietro, una pagnotta accanto a sé, al posto del passeggero.


NdT: 1 Danza popolare che si balla in cerchio, originaria della Grecia centrale.
2 Zuppa di pasta granulosa a base di latte
3 Former Yugoslavian Republic of Macedonia


di Ioanna Karistiani. Traduzione di:  Eleonora Aleotti, Stella Blasetti, Enrico Cerroni,  Cecilia Erba,  Alessandra Fiaccavento, Andrea Gimbo, Mavra Kakoliris, Jacopo Mosesso, Freedom Pentimalli, Nina Sietis, Giulia Sinibaldi, Francesca Zaccone sotto la sapiente guida di Maurizio De Rosa.


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