Και μάλλον Έλληνες καλείσθαι...

"Και μάλλον Έλληνες καλείσθαι τους της παιδεύσεως της ημετέρας ή τους της κοινής φύσεως μετέχοντας" ΙΣΟΚΡΑΤΗΣ

(“Siano chiamati Elleni gli uomini che partecipano della nostra tradizione culturale più di quelli che condividono l'origine comune” ISOCRATE)

16 dicembre 2012

Un racconto di Andreas Karkavitsas

La madre


Dall'antologia Uccelli di fango, Dragomanni 2012
Racconto di Andreas Karkavitsas
Traduzione di Viviana Sebastio
Illustrazioni di Alessandro Broccoletti



Quella notte – in quella spaventosa notte di dicembre – andai a dormire in un mulino a vento nel paesino di Troumpé. Mi sdraiai, ma non dormii. Fuori il temporale infuriava da un capo all’altro del villaggio e rendeva le strade impraticabili. Migliaia di suoni e innumerevoli rumori si susseguivano rapidi e improvvisi. Gli alberi dimenavano le chiome e appena il tuono si placava, iniziava il gemito del vento e appresso il lamento delle tegole.

All’improvviso, si udì il verso sinistro della civetta che a intervalli, copriva il rintocco della campana. Ma verso l’alba, tutto si calmò e quando mi alzai, vidi seduto al sole, il mugnaio che accanto alla sua gatta cinerina, stava rattoppando un sacco bucato.
«Nottataccia, eh?» dissi.
«Credi che una madre non farebbe altrettanto se le strappassero via il figlio?», chiese incuriosito.
Lo guardai sorpreso: cosa c’entrava una notte burrascosa con una madre alla quale era stato strappato via il figlio?


Ma Giannakis Xintaràs, il mugnaio, fu pronto a dimostrarmi che c’entrava, eccome! E fu così che mi raccontò questa storia:
«Guarda a destra la rocca di Santameri e guarda anche a manca il castello di Chlimoutsi.

I due castelli appartengono, da molto tempo ormai, a due sorelle, due fate. Ognuna delle due, però, porta con sé una gioia e un dolore.



Colei che ha preso Chlimoutsi è felice perché è bella, ma è triste perché non ha figli. Colei che ha preso Santameri è triste perché è brutta, ma è felice perché ha molti figli e i figli, sai, sono la sola vera gioia di una casa. Quando la madre li osserva – uno che si rotola sul pavimento, l’altro che salta e ride senza motivo, l’altro ancora che con una canna vuole arrivare a Dio –, dimentica ogni cosa, persino la sua bruttezza. E se le capita di guardarsi allo specchio e di vedere il suo volto vizzo e rugoso, allora indietreggia e tra le risa dice: “Ah, ah! La mia giovinezza l’ho data ai miei figli!”.
E in effetti, ha cinque maschi belli come il sole e una femmina che è l’incarnazione stessa della bellezza!

Ma l’altra fata, la bella, cosa può dire e come può consolarsi? Come, anche se è avvenente e con gli occhi azzurri? Come, anche se con i suoi averi potrebbe andare in sposa al Sultano di Avlakià? Come, anche se i folletti di Lintzi scatenano il finimondo con le loro nacchere e i tamburelli per cantare la sua bellezza? 
E spesso, molto spesso, l’infelice si ritrova a pensare a quanto è sola, totalmente sola in quel suo castello, pensa a quanto sono deserti i cortili, immobili le porte e vuote le stanze. Allora un brivido la coglie e quasi sviene dal dolore. E poi piange, piange. E ripete: “Perché mai non ho un figlio anche io? Perché Dio mio, dannazione perché! Perché non ho un bimbo, piccolo, paffuto, un bimbo roseo a cui carezzare i riccioluti capelli, un bimbo che mi getti le braccia al collo e che giocherellando con le sue prime parole, mi dica: ‘Mamma, mammina mia dolce!... ’”.
Un giorno, andò a far visita alla sorella e quando vide la felicità che regnava in quella casa, per poco non impazzì dal dolore.
“Dimmi, sorella mia, perché non mi dai uno dei tuoi figli?” implorò con le lacrime agli occhi.
“E perché lo vuoi?”
“Per compagnia, vivo così male da sola, mi sto ammalando!”
“Ma va! E ringrazia Dio per averti risparmiato una tale seccatura!” disse fingendo di essere infastidita dai suoi bambini. “E va bene, allora prendi quello che vuoi”, rispose infine. 

E così fu. Quella sera la fata bella se ne andò, portandosi via anche l’orgoglio di Santameri: la figlia bella della fata brutta.
Passarono i mesi e gli anni, ma la fata brutta non vide più né sua sorella né sua figlia. Un bel giorno, però, perse la pazienza e decise di andare a Chlimoutsi, ma giunta lì trovò il castello deserto, il portone serrato e gli abbaini coperti d’erba. Bussò alle porte, picchiò sui muri, pianse, gridò, ma nulla. La fata bella era dentro con la figlia bella, le due giocavano, ridevano e fingevano di non sentire la madre, l’addolorata madre, che fuori si percuoteva e si dimenava per sua figlia, per la carne della sua carne!».
Il vecchio Xintaràs interruppe qui il suo racconto, chiuse un altro buco del sacco e mi fissò negli occhi. Di certo il mugnaio da qualche parte voleva arrivare, ma aspettava solo che lo spronassi. Proprio come i buoi che pur conoscendo la fine della loro strada, di tanto in tanto si fermano e attendono il pungolo dell’aratore.
«E allora?» chiesi.
«Certo», disse e proseguì: «Da allora la fata brutta non ha più perso la speranza di riavere sua figlia e ogni tanto, torna al castello. Ma prima di andare indossa le vesti più belle, mette i gioielli più lucenti e porta con sé tutte le sue serve e le sue nutrici con violini e liuti. E al suo passaggio tutto ciò che è animato e inanimato gioisce. Il cielo splende, il mare si acquieta, la vasta pianura fiorisce, un dolce profumo si espande, tutte le creature si accoppiano dolcemente, gli alberi germogliano e nei villaggi trionfa la gioia, sembra Pasqua! E al suo passaggio soffia da un colle all’altro, un venticello pieno di canti melodiosi.
Ma quando la fata arriva al castello, lo trova ancora serrato e silenzioso e allora inizia a girare intorno a tutte le torri e a reclamare con voce addolorata e implorante la sua figliola. La reclama promettendo alla sorella Santameri con i suoi giardini incantati e i palazzi sospesi nell’aria, con le sue fontane di diamanti e le scale ornate di perle, con i suoi cortili dorati, le porte intarsiate e le volte scolpite. E infine, le promette che sarà signora e padrona di tutto, mentre lei diventerà la sua serva per servirla e la sua lavandaia per lavarla; mangerà i suoi avanzi e berrà sciacquatura, purché le restituisca la sua figliola adorata.
Questo e altro le promette. Ma la fata bella finge di non sentire quelle parole. Esasperata, la fata brutta si rivolge con dolcezza a sua figlia, facendole promesse. Le promette in dono il rubino più grande e prezioso, rosso come il sangue incandescente del drago, che lo protegge nelle viscere della terra.
Ma dall’interno non si odono che canzoni, musiche e risa di gioia, che accrescono la sua rabbia. Allora, inizia a maledire la sorella cagna sciagurata.
Calpesta le vesti e i gioielli che indossa, si lacera le guance con le unghie, si strappa i capelli, strilla e urla come una lince. Sbatte col petto contro le pareti, prende a pugni il portone, azzanna coi denti gli angoli dei muri, tira calci al castello inanimato finché esausta cade a terra, vomitando sangue e bile. Le serve allora, la sollevano e la riportano a Santameri. Ma lungo il tragitto non è più la madre felice che va a prendere la sua figliola. È una madre infuriata, un temporale armato di acqua, grandine e trombe d’aria. Il mare inizia a sbattere e a gemere, come se provasse quel suo stesso dolore. Il cielo si fa scuro e le acque torbide. Gli alberi sfiancati si abbattono a terra. Le giumente abortiscono e un’aria di sciagura opprime i villaggi. Da un capo all’altro della pianura si scatena la furia del temporale: querce millenarie sradicate, edifici abbattuti, tegole divelte, mattoni e sassi spazzati via e nell’altro mondo si ode il pianto della madre...
Ma che scemo! Non ho guardato se il temporale ha distrutto anche le pale del mio mulino!».

E Giannakis Xintaràs, il mugnaio, balzò giù dal suo posto e corse a controllare che il temporale non avesse distrutto anche le pale del suo mulino.








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