Desidero condividere con voi questo mio racconto ambientato su una scogliera siciliana o magari nelle profondità di una baia del Mar Egeo.
La storia mi è stata, in parte, ispirata dalla vita del compianto re degli abissi Enzo Maiorca e dell'enigmatico Jacques Mayol, e dal loro allievo Umberto Pelizzari, personaggi simbolo nel mondo dell’apnea. Ho avuto modo di approfondire le loro vite grazie alla bellissima esperienza che mi ha regalato la collaborazione con l’Anemon Production, casa di produzione ateniese che ha realizzato il documentario Dolphin Man dedicato a Mayol e al mondo dell'apnea.
Le incantevoli tele esposte in questo post sono realizzate da un caro lettore: grazie Vanni Painter! Potete visitare la sua galleria virtuale su Facebook.
Buona lettura!
In profondità
di Viviana Sebastio
di Viviana Sebastio
Si spogliò e abbandonò i vestiti in auto. Su quel tratto di costa non c’erano né cabine né tantomeno bar. L’atleta distese sui muscoli levigati un cospicuo strato di crema ad alta protezione, adatta a quella pelle troppo chiara per difendersi dai morsi del sol leone.
Era arrivato in orario perfetto, tra poco avrebbe incontrato il suo mentore, si sentiva eccitato per questa occasione attesa da tempo. “È una leggenda vivente, finalmente conoscerò il più grande apneista di tutti i tempi”, pensava. Mentre attendeva di fronte al mare color cobalto, compiva ampi movimenti di braccia per sciogliere l’agile muscolatura, che di tanto in tanto palpava come per verificarne la tempra. Era molto orgoglioso dei suoi traguardi sportivi e delle sessioni di allenamento, lunghe e intense. “Non vedo l’ora di misurarmi con lui e con i suoi record. E poi, ha pur sempre almeno 30 anni più di me, farò la mia porca figura”, rifletteva l’atleta, mentre si compiaceva della capacità espansiva di diaframma e gabbia toracica.
«Ben arrivato, carusu!», udì alle sue spalle. L’atleta si voltò e vide davanti a sé la Leggenda, il Re degli Abissi. «Che piacere, Maestro! Sono pronto, di quanto scendiamo oggi? Voglio spingere al massimo!». «Calma, carusu, prendi maschera e pinne, e seguimi». Il Re era alla soglia dei 60 anni, ma il fisico asciutto e nervoso non rivelava la sua età. Il volto severo e scurito da una vita trascorsa in mare era illuminato da occhi azzurri, che nella luce abbacinante di luglio viravano verso il turchese. “Sembrano fatti del blu luminescente delle profondità marine”, pensò il giovane atleta. Il Maestro accennò un sorriso che svelava denti lucenti come perle e poi si incamminò per fargli strada. Il suo passo era lesto e sicuro e se l’atleta non avesse avvertito sotto le piante dei piedi le punte irregolari e taglienti di quegli scogli avrebbe pensato che il Re degli Abissi stesse camminando su soffice sabbia. Lui, invece, spostava con cautela quei suoi lunghi piedi che, se tanto lo aiutavano nella spinta subacquea, ora gli parevano solo estremità smisurate.
«Cosa c’è carusu, andiamo. Il dolore è un’illusione!», disse il Re sorridendo. Il giovane uomo non ci trovò niente da ridere, anzi si era quasi spazientito, era lì per immergersi, per scendere in profondità, per spingersi oltre i suoi limiti: il Re avrebbe dovuto mostrargli i segreti della sua tecnica e non filosofeggiare. E a pensarci bene, ancora non aveva fatto neanche un cenno al suo ultimo record in apnea, eppure aveva staccato il cartellino a -95 metri in assetto variabile!
Il Maestro si fermò su una piattaforma naturale, inspirò profondamente a occhi chiusi, mentre il mare frammentava in scaglie argentee la solida sagoma del suo corpo. “Un po’ di comodità non guasta”, rimuginò l’atleta e poi sorpreso chiese «Ma ci immergiamo qui, Maestro? Non mi sembra il posto adatto, non è abbastanza profondo qui!».
Il Re lo scrutò e gli fece cenno di calzare le pinne.
«Forza carusu, preparati. Scommetto che non conosci la storia di questi luoghi, vero? In passato qui regnava la miseria, unica risorsa per la sopravvivenza erano i doni del mare. Gli uomini si immergevano per la pesca, mentre le donne raccoglievano il sale.
Un mattino d’estate come questo, una donna dal ventre gonfio di gravidanza fu sorpresa dalle doglie durante la sua rumpitina della crosta salina. Non sapeva cosa fare. Tornare verso il caseggiato era rischioso, troppa strada e troppi scogli da affrontare. L’istinto la guidò verso un lembo di costa levigato e lambito dall’acqua, il luogo più vicino che potesse offrirle un po’ di conforto. Era il suo primo parto, come doveva comportarsi? Sofferente e ansimante pregò Dio e il Mare che le andassero in soccorso. Tremava, vacillava, il suo corpo esalava sudore, eppure si sentiva gelare. Seguì ancora il suo istinto. Pensò agli animali, a ciò che aveva visto intorno a casa, nei campi. Rivolta verso l’acqua si accovacciò. Nell’arsura del giorno, un grido bestiale fece vibrare l’aria e increspare la superficie marina. La creatura ora era fuori dal ventre della donna, che rideva per la gioia e il sollievo.
La giovane madre si avvicinò al mare per tergere sé e il nascituro, mentre un vento leggero e sibili melodiosi di delfini accarezzavano le onde. La donna era ancora china sull’acqua quando la piccola creatura sfuggì alla sua presa e guizzò in mare. Sgomenta, cercò di riafferrarla, ma quella sgusciò via come un pesce e tra le onde scomparve insieme ai delfini.
Da quel giorno, ogni mattino e finché ebbe vita, la madre tornò su questa scogliera. E così fece anche la sua creatura, che riapparve ogni aurora per nutrirsi dell’abbraccio e del latte materno.
Ancora oggi il bambino-delfino viene a nuotare lungo queste sponde, ma solo chi rispetta e capisce il mare può riuscire a vederlo».
«Non credo alle leggende, Maestro, credo ai fatti».
«Lo immaginavo, carusu. Ma in apnea e in mare non contano i giudici o i cartellini che stacchi. Ora fai quello che faccio io e tieni a mente che proveniamo tutti da qui, dal mare, anche se molti, come te, lo hanno dimenticato».
Nell’aria arsa dalla canicola, il Maestro iniziò ad alternare profonde inspirazioni a lente espirazioni, e la sua gabbia toracica si estendeva ogni volta di più. L’atleta allineò la sua respirazione a quella del Maestro, sincronizzato ormai sul respiro regolare del mare. I profumi della frigana arsa dal sole pervadevano l’aria e si mescolavano agli odori marini. Salvia, timo, salsedine, rocce, iodio, sudore, cielo, con l’ultima profonda inspirazione, tutto venne incamerato nei loro polmoni. Un tuffo e quel tesoro di odori li seguì nella lenta discesa.
Il campione percepì con insolita limpidezza i mutamenti che stavano avvenendo nel suo corpo, il battito cardiaco che rallentava, il sangue che pulsava verso i polmoni, i vasi sanguigni che si restringevano. Quella calata lenta, senza obiettivi, senza cartellini da staccare, lo faceva sentire libero, tanto da non avvertire più neanche la pressione della profondità.
Seguiva il Maestro, mentre i loro corpi ondeggiavano flessuosi nei riflessi blu e turchesi dell’acqua. Avvolti in un silenzio liquido, i due uomini procedevano ora lungo l’altra superficie, il fondo.
Il Maestro sfiorò una posidonia e all’atleta parve di sentirne il fruscio setoso.
Una corrente leggera lambì la pelle del campione, un delfino lucente lo aveva raggiunto. In una sintonia ancestrale le due creature nuotarono accomunate dalla sospensione del respiro e del tempo. E c’era dell’altro. In quegli occhi acquosi all’atleta parve di scorgere qualcosa, vide quel mare che generò e accolse le prime forme di vita. Vide il bambino-delfino e il miracolo della nascita che ancora si ripete nel mare del ventre materno.
L’atleta ripensò alle parole del Maestro e lo raggiunse. Insieme i due uomini risalirono in lentezza la superficie, liberando gli ultimi frammenti di odori.
Il racconto è stato pubblicato sulla rivista MAG 0.
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