DOLCETTA E FIORENTINO
Di Pavlina Pampoudi traduzione di Viviana Sebastio
C’era una volta, tanto e
tanto tempo fa, un celebre Re di nome Fiorentino 0°, che viveva nel Regno di
Romantìa.
A quel tempo, il mondo era
appena nato. Le sue montagne sembravano solo dei brufoli giganteschi, i boschi
apparivano intricati e colmi di misteri, spiritelli e favole. Il mare, ancora
molto piccolo, cercava di diventare sempre più profondo per contenere tutte
quelle divinità (in seguito divenute foche, elefanti marini, polipi, ricci di
mare e altro ancora) che gremivano le sue acque, provocando onde altissime
piene di burle e di bisticci.
Il Re Fiorentino era bello
come un angelo e, sebbene non avesse ancora compiuto i sedici anni, nessuno lo
superava in saggezza e intelligenza.
Il suo regno era governato
con giustizia e non aveva mura di cinta né armi. In quel luogo, il vento, il
sole e la pioggia non litigavano mai, ma giocavano tra di loro. Gli alberi
cinguettavano, belavano, abbaiavano, miagolavano, muggivano e ragliavano,
mentre gli animali parlavano inglese e francese. Le strade, poi, non erano
lastricate di pietre, bensì di pagnotte (abbrustolite, ma non troppo).
Ma ahinoi, il destino
malevolo si ingelosì del buon Re.
In un luogo molto lontano
da Romantìa, nel paese di Efurìa, regnava il terribile Re Aikemàl. Costui
possedeva ricchezze immense: ori, pietre preziose, lunghi fili di komboloi [1], migliaia di pantofole e persino, grandi
mandrie di cammelli, scarafaggi ed elefanti. Aikemàl viveva con sua moglie, la
crudele strega Marabù, e con la loro bellissima figlia, la giovane strega
Dolcetta.
Nonostante fosse ricco,
anzi, ricchissimo, il Re Aikemàl era sempre fuori di sé, perché era stato
colpito da una strana malattia che gli faceva spuntare bolle in testa e
parolacce in bocca, il tutto accompagnato da insistenti pruriti sotto i piedi.
Ben due dozzine di medici sapienti, provenienti da ogni capo del mondo, erano
giunti al palazzo reale per guarirlo, ma né con farmaci né con intingoli, erano
riusciti nell’impresa. Il sovrano, in delirio per le bolle in testa, le
parolacce che uscivano dalla bocca e il prurito sotto i piedi, ordinò una
punizione esemplare per tutti quei dottori: il taglio del naso e, qualora
questo non fosse stato abbastanza grosso, anche il taglio delle orecchie.
Il tempo passava. La strega
Marabù impietosita dalle sofferenze del marito, decise di agire: raccolse di
nascosto quaranta gocce del sudore del Re, tante quanti erano i suoi anni di
vita, le versò in una tazza d’argento e le espose per un’intera notte alla luce
delle stelle, perché puzzavano e perché si dovevano «stellarizzare». Al
sorgere del sole, le quaranta gocce si erano ridotte a sedici, tante quanti erano gli anni di Fiorentino, e avevano preso un
buon profumo di garofano e cannella. La strega Marabù le contò e, dopo aver
consultato il Libro dei Comportamenti Abominevoli che teneva sempre sotto il
suo cuscino, si recò dal malato: «Marito mio, Re di Efurìa, c'è solo un modo
per farti guarire: devi far rapire il celebre e saggio re, che ha ancora il
volto di un fanciullo e la voce di un angelo. Il suo nome è Fiorentino, ha
sedici anni e vive nell'isola di Romantìa. Devi farlo portare qui; io, per
un’intera luna, lo nutrirò con zucchero, miele e lukumi [2],
poi lo ucciderò. Col suo dolce sangue riempirò una vasca, nella quale farai tre
immersioni e tre gargarismi. Infine, ti laverai, ti sciacquerai e, finalmente,
sarai guarito».
Aikemàl
guardò la moglie con sospetto. Era come sempre fuori di sé per le fastidiose
bolle sulla testa e tramortito dalle risate provocate dal prurito sotto i
piedi. Il solito fiume di parolacce riprese a sgorgare dalla sua bocca regale:
«Moglie mia BIP! Regina di Efurìa BIP! Che ti prenda un BIP! Se non guarirò,
BIP ti colga! Sappi che non ti taglierò via il naso, ma taglierò te via dal tuo
naso! BIP! BIP! BIP!»
Detto
questo, il crudele Re fece armare una spaventosa nave pirata e, issato il suo
vessillo nero, uscì in mare aperto.
Per
ben tre settimane, Aikemàl e i suoi gaglioffi lottarono contro le onde. Alla
quarta settimana, attraccarono all'isola di Romantìa. Il Re e i suoi furfanti
assaltarono e distrussero senza scrupoli, quel regno privo di mura e di armi e,
infine, rapirono il giovane Re.
Da
quel momento, terribili disgrazie iniziarono a susseguirsi nell’isola: gli
animali persero la parola, gli alberi smisero di cinguettare, belare, abbaiare,
miagolare, muggire e ragliare, i venti presero a infuriarsi, mentre il sole e
la luna comparvero in cielo all’unisono. E ancora: la pioggia, la neve e la
grandine iniziarono a litigare tra loro, sbriciolando le strade fatte di
pagnotte.
Quando
l’inquietante nave pirata tornò a Efurìa, la strega Marabù prese in consegna Fiorentino
e lo rinchiuse in una buia prigione. La bellezza del nobile Re illuminò quella
misera cella. Chiunque quel giorno riuscì a vederlo, rimase abbagliato dal suo
splendore. Di nascosto, da dietro le sbarre, lo vide anche la giovane Dolcetta.
Ancora
ignara dell'amore, la principessina nel vederlo, provò una forte fitta al cuore
e tra sospiri e languori, si ammalò. La sua vecchia tata, Fortuna, la curò
amorevolmente con bagni freddi, frizioni d’alcol, cataplasmi, tisane calde a
base di erbe aromatiche e spezie… anche l'Uomo Nero, il suo tato, si allarmò e
chiese alla giovane donna: «Cos’è che
ti sta facendo appassire mio delicato fiore d’oriente?»
«Oh tato mio, non faccio
altro che pensare a quel giovane re, quel povero sventurato che mia madre ha
rinchiuso in prigione e che ucciderà presto di sicuro. Ti supplico, trova le
chiavi della cella e dàlle a me... » rispose Dolcetta.
«E cosa
vuoi farci con le chiavi?»
«Libererò il giovane Re,
per renderlo schiavo del mio amore e se non ci riuscirò, morirò con lui».
Il tato, l'Uomo Nero,
impietosito da quella supplica, rubò le chiavi alla strega Marabù. Insieme a
quelle, rubò anche tutti i suoi arnesi magici e li donò a Dolcetta: un’antenna
di lumaca, un talismano contenente il respiro di un dio, un dente di drago, un
pettine con qualche capello di prete, un uovo di tartaruga piumata e un piccolo
specchio.
«Prendi, mio delicato fiore
d’oriente. Prendi queste chiavi, libera il giovane Re e rendilo schiavo del tuo
amore. La magia ti aiuterà a bloccare la strada a quanti vi inseguiranno».
Dolcetta, commossa,
abbracciò e baciò il suo tato. Prese le chiavi, le nascose in una tasca e si
soffermò a guardare quegli arnesi magici.
«Ma io non conosco l'arte
della magia!» esclamò. «Non so affatto come usare questi arnesi.»
«Sei una giovane strega,
degna figlia di tua madre», rispose l'Uomo Nero. «Vedrai che al momento giusto
saprai cosa fare».
Il tato le fece altri doni:
un occhio verde di sirena, che permetteva di vedere nell’oscurità della notte,
un sacchetto pieno di biscotti che non si esaurivano mai e un grappolo d'uva
composto da diciotto acini che restavano sempre diciotto.
«Vai ora... tu e il tuo
amato avete una lunga strada davanti a voi e buona fortuna!» esclamò l’Uomo
Nero, baciandole le piccole mani.
Dolcetta lo salutò e corse via
ad aprire la cella in cui era rinchiuso Fiorentino. Il giovane Re rimase
sbalordito nel vedere la bella principessa e, con voce tremante, le chiese:
«Sei per caso un angelo sceso dal cielo a prendere la mia anima?».
«È il tuo cuore che
voglio», sussurrò la fanciulla. «Non sono un angelo e neanche un diavolo, sono
Dolcetta, colei che ti ama».
La principessa lo strinse a
sé e con le sue lacrime gli lavò il volto, che asciugò a suon di baci. Con dolci carezze gli pettinò
i capelli e gli lisciò gli abiti sgualciti. Infine, tenendogli la mano, lo condusse fuori dalla prigione. I due
innamorati iniziarono a correre nel buio della notte, illuminando la loro
strada con l'occhio verde di sirena.
La strega Marabù, appena
seppe della fuga, avvertì il Re Aikemàl, che prontamente fece partire
all’inseguimento dei due amanti un intero esercito provvisto di torce, cavalli,
elefanti e cani.
Accortasi del pericolo
imminente, Dolcetta estrasse dalla bisaccia l’antenna di lumaca e la gettò a
terra: all’istante, un getto d'acqua lucente iniziò a sgorgare così potente da
arrivare fino al cielo e da inondare i campi circostanti. Le torce si spensero,
i cavalli si imbizzarrirono, gli elefanti inzuppati presero a starnutire e i
cani bagnati persero del tutto le tracce dei due giovani fuggiaschi.
Ormai un’immensa distesa
d’acqua argentea separava l’esercito dai due amanti.
Fiorentino e Dolcetta
proseguirono il loro cammino fino alle prime luci dell’alba finché, sfiniti
dalla fuga, si rifugiarono in una grotta, dove dormirono fino a sera, l'una
nelle braccia dell'altro. Quando scese di nuovo la completa oscurità, i due
giovani si svegliarono per riprendere il loro viaggio verso Nord, ma prima di
partire si sfamarono con alcuni dei biscotti e dei diciotto acini d’uva che non
si esaurivano mai.
All’alba del giorno
successivo, gli inseguitori avevano quasi raggiunto, ancora una volta, i due
innamorati. Allora, Dolcetta decise di liberare nell'aria il respiro di dio
racchiuso nell'amuleto e, come per magia, un turbine d'aria fiammeggiante si
scatenò, sparpagliando verso i quattro punti cardinali l’intero esercito e i
suoi cani, cavalli, cavalieri ed elefanti.
Quel giorno, Fiorentino e
Dolcetta dormirono nell'incavo di una quercia millenaria, stretti in un tenero
abbraccio. Si risvegliarono al nuovo calare della notte e, dopo aver mangiato
uva e biscotti, ripresero il loro cammino. Dolcetta, di tanto in tanto, si
fermava lungo il tragitto, per gettare prudentemente dietro di sé un dente di
drago e un capello di prete. Come per magia, il dente si radicava subito nel
terreno, cresceva e diventava una montagna alta e scoscesa; il capello, invece,
germogliando in un baleno, si trasformava in una foresta impenetrabile.
All’alba del terzo giorno, la
pianura era attraversata da una lunga catena montuosa, circondata da boschi fitti
e intricati. Ormai, tra la giovane coppia e il regno di Aikemàl correva una
distanza infinita.
Al calare della terza notte
di fuga, davanti ai due amanti apparve il mare. Dolcetta si sedette sulla riva
e iniziò a intonare le note di una canzone magica, che lei stessa non sapeva di
conoscere:
Dalle
profondità più fonde
Dalla profonda
conchiglia
salirà un veliero
E
sulla schiuma del mare
Veleggerà sulla sua
rotta
più fulmineo del
pensiero
Buon
vento nelle vele
Come nel sogno più bello
presto saremo salvi nel
tuo castello
Prima che la canzone
terminasse, dalla schiuma salmastra affiorò un veliero fatto della stessa
materia del mare. Le sue vele erano nuvole, i suoi alberi raggi di luna, mentre
sulla prua, un giovane Zefiro suonava placido.
Fiorentino e Dolcetta
salirono sul veliero verde acqua e, sfiorando la bianca spuma, si diressero
verso Romantìa.
«Fiorentino mio, mio
leone», disse Dolcetta accoccolata nell'abbraccio del suo amato, «tra poche
ore, sarai di nuovo nella tua amata patria... »
«Sì, mia cara» rispose
stringendola a sé, felice.
«Fiorentino caro», proseguì
Dolcetta, «ascolta con attenzione ciò che ti dico: quando arriverai al tuo
castello, non lasciare che tua madre la Regina ti baci, perché se lo farai, ti
dimenticherai per sempre di me.»
«Io dimenticarmi di te, mia
amatissima? Mai! Neanche se mi baciasse l’Angelo della Morte!» esclamò Fiorentino.
Dolcetta pensierosa scosse
la testa e tacque.
Qualche ora dopo, il
veliero incantato approdò sulle rive segrete di una spiaggia di Romantìa e,
dopo aver lasciato scendere i due giovani amanti, tornò a inabissarsi nelle
profondità del mare.
Fiorentino baciò
teneramente Dolcetta e mormorò: «Luce dei miei occhi, aspettami qui, in questa
grotta. Domani, con mia madre e la mia corte, tornerò a prenderti e, con tutti
gli onori che meriti, ti condurrò al mio castello dove diventerai la mia
regina».
Dolcetta accennò un sorriso
ed entrò nella grotta.
Scese la notte e poi giunse
il giorno, seguì un’altra notte e ancora un nuovo giorno; arrivò l'estate, poi
l'autunno e il tempo passò.
Fiorentino era stato
baciato da sua madre e come Dolcetta aveva predetto, si era dimenticato per
sempre della sua amata.
Intanto, il grappolo d'uva
e i biscotti che non si esaurivano mai erano terminati.
Quando la luna fu piena per
la ventiduesima volta, Dolcetta uscì dalla grotta, salì su una roccia e,
sussurrando nel vento alcune parole magiche, ruppe l'uovo di tartaruga piumata.
Di colpo, lo sperone di
roccia fu avvolto da una fitta nebbia, che al sorgere del sole si dissipò,
svelando un elegante palazzo circondato da giardini lussureggianti. Le alghe
erano state tramutate in alberi altissimi, i pesci cinguettavano allegri sui
rami e granchi e farfalle, trasformati in servitori e giardinieri, correvano
qua e là sui prati.
Ben presto, al castello si
apprese di una giovane strega sconosciuta, che aveva eretto il suo elegante
palazzo su una spiaggia di Romantìa. Si diceva che fosse molto bella e che non
avesse uno sposo. I giovanotti del luogo si misero, allora, a gironzolare
intorno a quel palazzo, nella speranza di poterla vedere e avvicinare.
Ogni volta che Dolcetta si
affacciava alla finestra, i suoi pretendenti nel vederla restavano senza fiato.
I servitori, nel frattempo,
non esitavano a tirare sassate a chiunque si avvicinasse troppo al palazzo.
Così, colpirono e ferirono il figlio di un pescatore, il nipote di un
commerciante, il figlioccio del Grande Scudiere, il cugino del Giullare, il
cognato del Capo Cuoco, il cocchiere del Generale e persino lo stesso Generale.
Intanto, il Re Fiorentino decise
di inviare un suo consigliere al palazzo di Dolcetta, per verificare se la dama
fosse bella come si diceva e per invitarla, quindi, alla sua corte. Il giovane Re
era ormai in età da matrimonio e, infatti, per trovare la sua sposa aveva
deciso di dare un grande ballo, la domenica successiva.
I servitori di Dolcetta,
però, presero a sassate anche il consigliere reale.
«Fermi!» gridò l’uomo.
«Vengo da parte del Re: Sua Maestà vuole invitare a corte la vostra signora.
Domenica ci sarà una grande festa da ballo, durante la quale il Re sceglierà la
sua sposa. Informate la vostra signora e chiedetele di scendere affinché io
possa vederla».
I camerieri continuarono a
tirargli pietre, ma questa volta le erano pietre preziose: diamanti, rubini,
smeraldi e zaffiri.
«Puoi
andartene, la nostra signora è informata di tutto!»
«Allora, verrà? Se è bella
come dicono, forse il Re sceglierà proprio lei come sposa.»
«No, non verrà. La nostra
signora non può sposare un re, non può sposare nessuno, perché è poverissima.»
«Povera?!
Ma se ha tutte queste pietre preziose!»
«Sì, è povera, perché non
ha più l’amore, né la gioia, né il coraggio: glieli hanno rubati.»
«Chi è stato a derubarla?
Ditelo a me, così il Re giudicherà e punirà il furfante».
In quel momento, Dolcetta
si affacciò da una finestra.
«Di’ al tuo Re che verrò e
non per il ballo, ma per giudicare il ladro!» gridò. Il consigliere nel vedere
cotanta bellezza rimase a bocca aperta e quando tornò al castello, quasi non
riuscì a trovare le parole adatte per descrivere la bella dama a Fiorentino.
«Mio venerabile signore, il
suo volto è rosa come un’alba sul mare, i suoi capelli sono scuri come la notte
del bosco, i suoi occhi luminosi sono colmi di fiabe, il suo corpo è un impasto
di zucchero e vento…».
Un vago ricordo balenò
nella mente di Fiorentino, ma svanì rapidamente.
La domenica seguente,
Dolcetta decise di andare al castello del Re. Al suo ingresso nella grande sala
da ballo, la bellezza delle altre cento pretendenti, accorse lì sin dal
mattino, d’improvviso impallidì, così come impallidiscono le stelle al
comparire del sole.
Dolcetta procedette lungo
la sala, a testa alta e, superato il trono su cui Fiorentino era seduto, si
fermò davanti alla regina madre. Le fece un inchino e inginocchiandosi disse:
«Mia Regina e madre del Re, sono Dolcetta, principessa di Efurìa, figlia di
Aikemàl e di Marabù. Sono qui, innanzi a te, perché tuo figlio Fiorentino mi ha
offesa».
La regina scossa da quelle
parole domandò: «Cosa ti ha fatto mio figlio? Dimmi.»
«Per amor suo, ho perso
l’onore e il rispetto, i miei genitori e la mia patria».
Fiorentino la guardava con
stupore, ma continuava a non riconoscerla.
Dolcetta si voltò verso di
lui e, sussurrando con la voce spezzata dal dolore, intonò una canzone:
Ricordi o non ricordi mio leone
Che a Efurìa eri chiuso in prigione?
Io tua schiava, ti son venuta a liberare
perché al mio amore ti ho voluto incatenare
Insieme siamo scappati e l’esercito ci ha inseguiti,
ma gli ostacoli del mondo non ci potevano fermare
Ogni notte per mesi siamo fuggiti,
ma di giorno nel tuo abbraccio mi son lasciata
addormentare…
Ti ho nutrito con uva magica e un impasto stregato
Miele e baci vermigli sulle tue dolci labbra ho stillato
Ricordi o non ricordi mio leone
Abbracciati, nelle grotte, trascorrevamo le ore?
«Non ricordo nulla, io non
ti conosco, bellissima fanciulla», affermò Fiorentino commosso. «Quando ti
guardo, però, non so perché, il mio cuore palpita come non mai. Vuoi essere mia
sposa?»
Dolcetta scosse la testa
con fierezza.
«No, non posso diventare la
tua sposa. Non posso perché sono già tua sposa».
La regina, sconcertata,
balzò in piedi: «E quando vi sareste sposati? Mio figlio non mi ha mai detto
niente! Quando è successo? Dove?», chiese a Dolcetta che, guardando Fiorentino con
ardore, riprese a cantare:
Ricordi o non ricordi mio leone?
Del bacio di tua madre, dillo senza timore!
Tu sei il mio sposo e io la tua sposa,
Devi fidarti e ascoltare il tuo cuore.
Sotto il mirto, la luna e le stelle
Abbiamo protetto il nostro amore
Dèi e dee, ne son tutti testimoni
E se il nostro matrimonio è una bugia,
le montagne diverranno burroni.
«Figlia mia, hai qualche
prova di ciò che dici? Hai un anello? Un medaglione?», domandò la regina alla
fine del canto.
«No, mia Regina, niente di
tutto ciò», rispose Dolcetta. «Sulle mie dita e sul mio collo, ho le sue
carezze d’oro e i suoi baci preziosi, cose che l’occhio umano non può
scorgere.»
«Il mio cuore ti crede,
figlia mia», affermò commossa la madre di Fiorentino.
«Che gioia, ora anch’io posso
chiamarti “mamma”! Prima, però, mia regina, dovrai dare anche a me quel bacio
che desti a tuo figlio, facendogli dimenticare del nostro amore. Solo così, Fiorentino
riacquisterà la memoria e potrà raccontarti lui stesso la verità».
Infatti, appena Fiorentino vide
sua madre chinarsi per baciare Dolcetta, sentì l’incantesimo svanire e ricordò
subito tutto quanto. Si avvicinò con passione alla sua amata e la strinse a sé
con tale ardore da farla cadere a terra e con un’energia tale da toglierle il
fiato.
Tutti: la regina, il
giullare, lo stalliere, il generale, i consiglieri, i cortigiani, i servitori e
finanche le sfortunate pretendenti accorsero in aiuto della principessa.
Dolcetta presto si riprese e si rialzò. Ora, però, era tutta spettinata e
il suo vestito azzurro ricamato d’argento era sporco e sgualcito. Ricordò,
allora, di avere in serbo ancora un ultimo oggetto stregato donatole dal
padrino: il piccolo specchio.
Si specchiò e all’improvviso apparve ben pettinata e con la testa cinta da
fiori d’arancio. Indosso aveva un abito nuovo, candido e ornato da polvere di
stelle e di lillà, leggero e delicato come la tela di un ragno.
Ora tutto era pronto. Trombe dorate iniziarono a squillare e i
festeggiamenti per l’unione tra Fiorentinoe Dolcetta ebbero inizio.
Trascorsero i giorni, le notti e gli anni ...
I festeggiamenti proseguono ancora oggi e andranno avanti per sempre, lì,
lontano, nel luogo e nel tempo delle favole.
N.d.T. «Fiorentino e Dolcetta» è una favola tradizionale cretese, risalente al
periodo della dominazione veneta nell’isola. La scrittrice Pavlina Pampoudi
reinterpreta questa antica favola, riscrivendola in chiave moderna.
Le illustrazioni sono opere su tela di Pavlina Pampoudi.
[2]
Dolce tipico dalla
consistenza gelatinosa.
***
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