Roma, da qualche giorno, è ricoperta dalla neve e le temperature continuano a oscillare drasticamente intorno allo 0.
Dopo i primi piacevoli momenti di
stupore e di meraviglia, capisco che per me questa sarà una dura prova.
Così, in attesa di temperature superiori ai 20° C, ma sì, superiori anche ai 25° C, penso all’estate e a qualche isola greca, magari leggendo…
Così, in attesa di temperature superiori ai 20° C, ma sì, superiori anche ai 25° C, penso all’estate e a qualche isola greca, magari leggendo…
UNA NASCITA
di Diego Zandel
Quando a zia Androula cominciarono le doglie, di
uomini in
casa c’ero soltanto io. Zio Giorgio, suo marito, si trovava a Trapezona, una località a valle di Asfendiou: ci teneva i buoi ed era
andato ad accudirli. Zio Kosta, cognato di zio Giorgio per averne sposato la sorella Stavrulla, se n’era andato con la sua motocicletta, come tutte le mattine, a Kos città, dove aveva gli
amici e passava le ore con loro a chiacchierare seduto al
kafeneon. Così furono le donne ad avvertirmi. Dalla casa di zia Androula uscirono zia Stavrulla, sua sorella Dèspina, che poi sarebbe mia suocera e vive con noi a Roma, mia moglie Anna e le nostre due bambine, Irene ed Elena. Quest’ultime erano particolarmente chiassose, galvanizzate dall’evento.
casa c’ero soltanto io. Zio Giorgio, suo marito, si trovava a Trapezona, una località a valle di Asfendiou: ci teneva i buoi ed era
andato ad accudirli. Zio Kosta, cognato di zio Giorgio per averne sposato la sorella Stavrulla, se n’era andato con la sua motocicletta, come tutte le mattine, a Kos città, dove aveva gli
amici e passava le ore con loro a chiacchierare seduto al
kafeneon. Così furono le donne ad avvertirmi. Dalla casa di zia Androula uscirono zia Stavrulla, sua sorella Dèspina, che poi sarebbe mia suocera e vive con noi a Roma, mia moglie Anna e le nostre due bambine, Irene ed Elena. Quest’ultime erano particolarmente chiassose, galvanizzate dall’evento.
“Papà, papà, zia Androula ha le doglie” si
affrettarono a gridarmi con allegra innocenza, ripetendo ciò che avevano udito
dalle donne “Adesso nasce il bambino”.
Fino a quel momento era stato tranquillamente
seduto a leggere un libro sotto l’ombra preziosa di un gelso, nel vicino
cortile della casa di zio Kosta Ogni tanto distoglievo gli occhi dalla pagina
per rivolgerli, languidi e pensosi, allo spettacolo delle isole di Kalimnos e
Pserimos e delle coste dell’Anatolia, sospese nell’azzurro del cielo e
dell’Egeo, là oltre la piana degli ulivi e la bianca spiaggia di Tigaki. Voleva
essere il programma della mia giornata quello. Invece quel corteo muliebre
arrivava con altri compiti per me.
“Bisogna andare a chiamare un taxi” gridò mia
moglie.
“Bisogna portare Androula all’ospedale” spiegò
zia Stavrulla.
“Bisogna far presto” incalzò mia suocera.
“Ho capito” dissi prima che riprendessero il coro,
“Sarà tutto fatto”.
Posai il libro e mi alzai dalla sedia. Dovevo
scendere in piazza, al magazzino di Mixali, dove si trovava l’unico telefono
del villaggio. Mi mossi immediatamente. Ma non potevo passarla così liscia. Le
mie figlie approfittarono subito di quella mia improvvisa spedizione al
magazzino, unico punto di rifornimento del luogo, per chiedermi di comprar loro
qualcosa.
“Il gelato, papà, compraci il gelato” presero a
gridarmi mentre
prendevo la ripida scorciatoia che porta alla piazza, una sorta di mulattiera che permette di evitare il giro più tortuoso della strada principale, lungo la quale sono disseminate le case, piccole e calcinate, di Asfendiou. Noi ci trovavamo sulla parte più alta del villaggio, quasi un borgo a sé, chiamata Asomatos: qui c’è la vecchia casa, arredata in stile turco, tipico delle isole del Dodecanneso, del padre di mia suocera, nostra dimora nel periodo delle vacanze estive.
prendevo la ripida scorciatoia che porta alla piazza, una sorta di mulattiera che permette di evitare il giro più tortuoso della strada principale, lungo la quale sono disseminate le case, piccole e calcinate, di Asfendiou. Noi ci trovavamo sulla parte più alta del villaggio, quasi un borgo a sé, chiamata Asomatos: qui c’è la vecchia casa, arredata in stile turco, tipico delle isole del Dodecanneso, del padre di mia suocera, nostra dimora nel periodo delle vacanze estive.
Per la corsa e per il caldo, arrivai trafelato
in piazza. Entrai nel buio e fresco magazzino di Mixali. Il bottegaio stava
placidamente seduto a chiacchierare, tra tazzine di caffè e fumo di sigarette,
con papas Gavrili, il pope del villaggio, che sgranava distrattamente il kumboloi, una specie di rosario a grani
grossi, e il barbiere Vassili, che apriva il suo negozio solo a richiesta.
Salutai, quindi dissi d’un fiato: “Mixali, chiama un taxi, zia Androula ha le
doglie”.
I tre uomini mostrarono compiacimento, con
sorrisi e tradizionali espressioni di augurio.
“Allora ci siamo” commentò poi allegramente
papas Gavrili, prevedendo il battesimo e i proventi che esso portava: “extra”
sempre più radi in un villaggio come quello che vedeva via via diminuire la sua
popolazione.
Mixali composto il numero della stazione dei
taxi di Kos, strillò nella cornetta del telefono i motivi d’urgenza di una
macchina. Doveva essere una Kosa breve, invece lo scambio di battute continuò:
il solito gusto dei greci per la conversazione. Io fremevo, osservato, per
questo motivo, con stupita curiosità da papas Gavrili e da Vassili. Ma che
fretta avevo? Quando Mixali abbassò il telefono mi disse: “Adesso parte il
taxi. Gli ho detto di venire qui al magazzino, perché non sa a quale casa deve
andare. Ti conviene aspettare, così sali con lui”.
Da Kos il taxi ci avrebbe messo più di mezz’ora
ad arrivare. Pensai poi all’altra mezz’ora e passa per ritornare a Kos. Zia
Androula avrebbe retto fino allora?
Gli altri uomini non sembravano toccati da
questa preoccupazione. Papas Gavrili mi indicò una cassetta d’agrumi vuota, che
aveva accanto a sé.
“Sedetevi qui” m’invitò in italiano, che non
aveva dimenticato dal tempo in cui, tra le due guerre, l’isola si trovava sotto
amministrazione italiana.
Mi mostrai per un attimo indeciso. Ma poi pensai
che non avrei affrettato l’arrivo del taxi continuando a restare in ansia.
Andai perciò a sedermi accanto a papas Gavrili. Oltre la porta del magazzino,
là fuori, la piazza polverosa e battuta dal sole, rimandava un biancore
abbacinante. Fu sufficiente a farmi riflettere sul perché di certi ritmi in
quel mondo.
Mixali, senza che avessi chiesto nulla, mi porse
un vassoio con una tazzina di caffè e un bicchier d’acqua. “Te lo offre
Vassili” disse.
Guardai il barbiere, piccolo e magro, se ne
stava perduto nel suo mondo di fumo, accartocciato su se stesso: le gambe
accavallate, i gomiti poggiati sulle ginocchia, la sigaretta tra le dita posta
davanti alle labbra, alle quali la portava con gesto quasi impercettibile.
Aveva un ramoscello di basilico sull’orecchio.
“Efcharistò”
lo ringraziai.
“Tipota”,
niente, rispose.
Sollevai la tazza e augurai: “Stin ighià sas”, salute a tutti.
Sorseggiai. Papas Gavrili mi chiese: “Venite anche voi a Zià oggi pomeriggio?
C’è la benedizione dell’acqua. Potrete portarne una bottiglia in Italia”.
Buona idea, pensai. L’acqua benedetta di Zià –
un villaggio vicino, frazione di Asfendiou, ricco di sorgenti – mi aveva sempre
portato fortuna: bastava chiedere a papas Gavrili la benedizione più varis, più pesante (ce n’erano di vari
tipi). Di quell’acqua sarebbe bastato prendere un cucchiaino a settimana, il
mattino a digiuno, per tener lontano il malocchio: un piccolo rito che veniva
seguito dall’intera famiglia. Immagino le burle dei miei amici, che mi sanno
orgoglioso miscredente, se venissero a sapere della cosa. Risparmio di
raccontare la scena della benedizione in chiesa: io con mia moglie, mia suocera
e le bambine – che si divertono un mondo – tutti inginocchiati sotto la stola
rosso dorata del pope, che intona la formula liturgica come se fossero parole
magiche.
“Verrò” promisi a papas Gavrili, con il quale
subito dopo presi a parlare di politica, argomento per il quale aveva una
dialettica tutta bizantina.
Il tempo, in questo modo, volò e arrivò il taxi,
uno di quei grossi bidoni americani o giapponesi, come si usano da quelle
parti, personalizzati con tanti gingilli, foto e festoni colorati di sapore
arabo ai bordi del parabrezza e l’autoradio accesa a tutto volume che
trasmetteva tipiche melodie greche. L’autista, alto e pelato, con due baffoni
neri, scese dalla macchina, mentre tutti noi, Mixali, papas Gavrili, Vassili ed
io, gli andammo incontro.
Si cominciò subito a dialogare animatamente,
come se si litigasse, alla maniera greca, ma gli argomenti erano: qual era la
casa dove il taxista doveva andare; l’avviso che lo avrei accompagnato io; il
fatto che si vedeva che non ero del posto: la curiosità di sapere da quale
paese venivo (poi, la solita frase: “italiano greco, una fazza, una razza”,
dove fazza sta per faccia); quindi ancora l’interesse di sapere perché mi
trovavo ad Asfendiou e la relativa spiegazione data in maniera complicata: ero
il marito della figlia di una del paese, che era la sorella del marito della
donna che stava per partorire; commento generale: certo, povera donna, era dura
partorire con questo caldo! A lui, il taxista, per il caldo, era venuta sete,
avrebbe bevuto una birra; Mixali rientrò per andare a prenderne nel frigo un
barattolo: il taxista lo stappò e prese a bere… Nel frattempo il taxi aveva
suscitato la curiosità dei bambini del villaggio, che avevano ormai circondato
la macchina.
“Sarà meglio che andiamo” proposi io
timidamente.
Il taxista annuì. “Finisco soltanto di bere la
birra” rispose. Mi ricordai dei due gelati per Irene ed Elena. Lo dissi a
Mixali e gli pagai, oltre ai gelati, la telefonata e la birra del taxista. Ma
ora mi sentivo di nuovo in ansia per zia Androula. Entrai nell’automobile,
sedetti al posto accanto a quello dell’autista. Mi venne in soccorso papas
Gavrili che disse al taxista: “Adesso andate, altrimenti i gelati per le
bambine si squagliano”.
Finalmente ci muovemmo, con uno scatto
addirittura, sollevando un gran polverone. A ogni curva il taxista, senza
diminuire la velocità, suonava il clacson. Generosamente avvertiva civili e
animali che stavamo per passare noi e che, quindi, corressero ai ripari. Ma ad
Asfendiou anche le galline che passeggiavano in mezzo alla via avevano un loro
placido modo per schivare, all’ultimo momento, le ruote dell’automobile. Il
frastuono aveva avvertito i miei dell’arrivo. Vidi Irene ed Elena che ci
aspettavano davanti al cancello del cortile della casa di zio Kosta.
Avvertii il taxista che eravamo arrivati. Frenò
bruscamente, all’ultimo momento: le mie figlie scomparvero in una nube di
polvere, per riemergere quasi subito con le manine protese a reclamare il loro
gelato. Aspettavano solo quello e mi chiesi cosa sarebbe successo se me ne
fossi dimenticato. Mi strapparono letteralmente le confezioni dalle mani, e
corsero a godersi il gelato sotto l’ombra del gelso.
Poco dopo vidi arrivare zia Stavrulla con una
enorme valigia di cartone, come quelle che si usavano una volta, con la
chiusura magari resa più sicura da uno o due giri di spago. Mi precipitai ad
aiutarla mentre il taxista apriva il portabagagli A zia Stavrulla seguirono zia
Androula, mia suocera e mia moglie. I dolori, fui informato, erano ora un po’
più frequenti. Sistemammo zia Androula sul sedile accanto a quello dell’autista,
quindi di dietro salimmo mia suocera, zia Stavrulla e io. Partimmo salutati da
Anna e le bambine.
La strada del villaggio non è asfaltata. E’
bianca, polverosa e piena di sassi e buche. Se prima non ci facevo caso, adesso
a ogni pietra o buca che prendevamo era come se la vita di zia Androula e
quella che portava in grembo venissero messe a repentaglio. Mi confortava solo
il fatto che la vedevo tranquilla e serena. Ripassammo davanti al magazzino e
attraversammo la piazza salutando tutti – papas Gavrilli, Mixali, Vassili, i
bambini – festosamente con il clacson. Quindi cominciò la discesa. Asfendiou si
trova a seicento metri d’altezza, adagiato sul costone del monte Dikeo. Per
scendere a valle, la strada, stretta e a dorso d’asino, compie quattro
chilometri di curve sulle quali il taxista, forse intimamente sollecitato a
portar presto zia Androula all’ospedale e, nello stesso tempo, confidando nella
sua abilità nella guida, si gettò a capofitto. Pensai che sarebbe stato un
miracolo se zia Androula non avesse partorito in macchina. Mentre lo scenario
luminoso della piana di Kos, del mare delle isole e delle coste turche, via via
che scendevamo si andava restringendo, tutti noi in macchina ci chiudemmo
saggiamente in un religioso silenzio. Lo rompeva soltanto lo strimpellare di bouzouki
e il suono dei tamburelli che senza tregua continuavano a uscire dagli
altoparlanti dell’autoradio. Riuscimmo a schivare un capretto che dal pascolo
s’era spinto in mezzo alla strada; spaventammo una coppia di turisti che aveva
avuto la sventurata idea di salire in bicicletta ad Asfendiou; sfiorammo infine
la tragedia quando, dietro all’ennesima curva, ci trovammo davanti a un
motocarrozzino carico di cassette di pomodori: ma lo sorpassammo costringendolo
a scostarsi con un veemente e ripetuto suono di clacson. Mi accorsi che, dopo,
avevamo tutti, compreso il taxista, un sorriso ebete di paura sulle labbra. Non
potei fare a meno di allungare una mano sulla spalla di zia Androula e
chiedere: “Ollo kalà?”, tutto bene?.
“Ollo kalà” rispose con un filo di voce
ed un sorriso.
Mia suocera chiese
stizzosamente al taxista di andare più lentamente. Cosa che l’uomo, dopo una
risata nervosa e parole sdrammatizzanti, fece. Io proposi: “Per questi giorni
che zia sta in ospedale ci conviene prendere una macchina a noleggio”.
Mia suocera esultò a questa idea, la commentò
subito con la sorella e la cognata, che si affrettarono a complimentarsi con me
che l’avevo avuta.
Ormai filavamo lungo la strada costiera. Poco
dopo eravamo alle porte di Kos, infilavamo uno dei suoi viali alberati. E’
tutta una zona, quella, ricostruita dagli italiani dopo il terremoto che aveva
sconvolto l’isola nel 1933. I platani, così i pini mediterranei, erano stati
piantati allora. E anche le case conservano l’italico stile coloniale
dell’epoca fascista.
Arrivammo infine davanti all’ospedale; pagai il
taxista, presi la valigiona e accompagnai le donne fino al reparto maternità,
dove l’infermiera di turno si mostrò molto sbrigativa. Zia Androula fu invitata
a spogliarsi e scomparve dietro una tenda. A quel punto ritenni la mia presenza
inopportuna e me ne andai avvertendo che sarei tornato dopo aver preso la
macchina a noleggio. Uscii dall’ospedale e mi avviai verso l’agorà. Come al
solito, le strade erano molto animate, con frotte di turisti seminudi che
assediavano taverne e negozi di souvernirs e kafeneon. Passai per quello
dov’era solito fermarsi zio Kosta, ma mi dissero che se n’era già andato. E, in
effetti, guardando l’orologio m’accorsi che eravamo ormai prossimi all’ora del
pranzo. La segnalavano anche gli odori e i fumi che uscivano dalle taverne. E
se anch’io ne approfittassi per buttar giù un boccone? Pensai. Attraversai
l’agorà e andai alla taverna di Turkomanoli. Mi affacciai sulla porta.
Turkomanoli se ne stava col suo baschetto di traverso sulla testa e l’unto
grembiulone, davanti al piccolo e rotondo barbecue sul quale da
trent’anni cucinava, in maniera prelibata, il suo pesce.
“Toh, chi si vede!” mi fece.
Gli raccontai di zia Androula e lui, per un
momento, mi prestò attenzione. Subito la moglie, che se ne stava dietro il
bancone a preparare le insalate, lo redarguì strillando nella sua solita
maniera pittoresca. Era una brontolona, una sorta di Santippe, e coglieva ogni
occasione per rimproverare il marito di qualcosa che non andava, che ci metteva
tanto a cucinare il pesce o che era lento a servire i clienti. Turkomanoli,
unico esempio per me di uomo greco sottomesso alla moglie, si limitava ad
alzare gli occhi al cielo con rassegnazione. Un gesto che lo faceva apparire
molto simpatico. Da qualche tempo era nata una sorta di complicità tra noi: i
dollari che mi portavo dietro, invece della banca me li cambiava lui, di
nascosto dalla moglie (che altrimenti glieli avrebbe requisiti), in vista di un
viaggio in America, che aveva in animo di fare per andare a trovare una figlia
che era lì emigrata. Anche per questo motivo, sedutomi a un tavolo, fui servito
prima di altri avventori. Avevo lasciato che facesse tutto lui: mi portò una
porzione di triglie. Erano tenere e calde, si squagliavano sotto il palato. Un
giorno che avevo chiesto a Turkomanoli qual era il segreto della sua cucina mi
aveva risposto che esso stava nel condimento. Mi aveva mostrato la boccetta che
teneva a portata di mano: dentro c’erano ben mescolati olio d’oliva, succo di
limone e sale. Li spargeva sul pesce appena tolto dalla graticola.
Con le triglie Turkomanoli mi portò un bicchiere
del vino che faceva lui: lo teneva nelle botti che occupavano la parete dietro
il bancone. Appena poté venne a sincerarsi della bontà del piatto.
“Ottimo, Turkomanoli, come sempre” lo
rassicurai.
Prima che la moglie lo richiamasse feci in tempo
a chiedergli da chi potevo prendere una macchina a noleggio. Mi diede un nome,
Mavros, e l’indirizzo, nei pressi del porto.
“Fa buoni prezzi, lui” aggiunse Turkomanoli,
“digli che ti mando io”.
Ma quando fui da Mavros, un tipo sui cinquanta,
vestito sportivamente e dal piglio affaristico di chi era abituato a trattare
con i turisti, sorse un problema. A quell’ora aveva ormai dato via tutte le
macchine; se volevo, era rimasta una jeep. Me la indicò posteggiata davanti al
negozio. Si trattava di una grande Toyota, scoperta, con la sua ruotona di
scorta e la pala e il piccone di serie appesi sul posteriore. L’idea di
mettermi alla guida di una jeep mi solleticava, con la fantasia mi vedevo come
un uomo proiettato verso l’avventura, di cui, come tutti i sognatori subivo il
fascino e il mito di tanta letteratura. Ma, nello stesso tempo, ero colto dalle
mie ansie di pavido piccolo borghese. Temevo soprattutto pericoli per le mie
figlie: sempre nella immaginazione, vedevo Irene ed Elena cadere dal veicolo,
così scoperto e con quei sedili spartani, sulle serpentine che scendevano da
Asfendiou; o che l’aria e il vento diretti le raffreddassero. E poi, quando
avrei dovuto riportare zia Androula a casa, ci sarebbe stato anche il neonato…
Espressi i miei timori a Mavros, ma lui pur di fare quell’ultimo affare,
minimizzò ogni cosa convincendomi a prendere la Jeep.
Quando salii a bordo e mi sedetti al volante,
confesso di aver provato una certa emozione. Ormai novello Indiana Jones girai
la chiave del motore, diedi gas e avanzai lungo le strade di Kos come se
fossero del Cairo o di Gibuti.
Ritornai all’ospedale, dove parcheggiai la jeep
quasi davanti all’entrata. Saltai giù con intatto spirito di avventuriero e
infilai prima il vialetto esterno, poi il corridoio dell’ospedale. In fondo a
questo vidi zio Giorgio. Qualcuno era andato ad avvertirlo e lui aveva lasciato
i buoi per raggiungere la moglie. Appena mi vide, dal fondo del corridoio: “Ine mia korulla”, è una bambina e quasi
voleva piangere, perché si aspettava un maschio. L’abbracciai, felice che tutto
era andato bene.
“Andiamo a vederla” mi disse.
Io m’aspettavo di vedere la bambina come avevo visto
le mie quando erano nate, in un ambiente asettico e attraverso un vetro che, in
quelle prime ore, le proteggesse da eventuali contagi e infezioni esterne.
Invece zio Giorgio mi trascinò nella stanza dove erano riunite tutte le
puerpere, ciascuna con il proprio figlio accanto, assistite dalle proprie
madri-nonne. Salutai, imbarazzato per quella che mi sembrava l’intrusione in un
gineceo. Alcune puerpere stavano mangiando. Si sentivano gli odori dei piatti:
pomodori ripieni, dolmades, cioè foglie
di vite ripiene di riso, keftedes, ovvero
polpettine, abbondanti porzioni di pasticcio, formaggi. Evidentemente vige
l’idea che le puerpere devono mettersi in forze. Le donne risposero al mio
saluto con naturalezza. Tra esse c’era una fervida conversazione, un cicaleccio
di comari.
Intorno a zia Androula c’erano mia suocera, che
in quel momento stava raccontando la sua vita alla vicina di letto, zia
Stavrulla e la madre di zia Androula, che abitava a Pilì, un paese vicino ad
Asfendiou, e che salutai con un abbraccio. Baciai anche zia Androula. Era
ancora scarmigliata e confusa. Poi guardai la bambina, il solito mostriciattolo
delle prime ore. “Orea, orea”; bella,
bella, esclamai. Dormiva pacifica, incurante di quella confusione intorno a
lei.
Le altre puerpere mi invitarono a vedere anche i
loro bambini. Guardai in tutte le culle scambiando sorrisi con le mamme e le
nonne. Ogni bambino aveva appuntata una spilla con “l’occhio del Visir” contro
il malocchio.
Nel frattempo, anche zia Androula cominciò a
mangiare. La madre aveva portato una pentola di dolmades e una ricottina fresca fresca delle loro capre. Qualche
neonato frignava. Aveva fame anche lui.
“Meglio che togliamo il disturbo”, dissi a mia
suocera “ho la macchina qui fuori”.
Mia suocera annuì e chiamò sua sorella
Stavrulla. Chiedemmo a zio Giorgio se voleva tornare ad Asfendiou con noi, ma
rispose che preferiva restare, approfittava per fare degli acquisti a Kos.
“Ci vediamo questa sera e facciamo festa” mi
disse.
Gli diedi una pacca sulle spalle e salutai tutte
le puerpere con un augurio generale. Mi rispose un coro di efcharistò. La scena si ripeté con i saluti e gli auguri a tutte da
parte di mia suocera e zia Stavrulla. Uscimmo dalla stanza come da una festa.
Fuori dell’ospedale l’aria era calda, appena mossa da una brezza che arrivava
dal mare.
“Dov’è la macchina?” mi chiese mia suocera,
alleggerita al pensiero della comodità che l’aspettava.
“E’ quella” dissi indicando la jeep.
Mia suocera cambiò espressione. “Quella!?”
esclamò tra incredula e stizzita.
“Non ce n’erano altre” mi affrettai a
giustificarmi “era tardi ormai. Bisogna andare la mattina presto a prenderle”.
Zia Stavrulla, col suo sorriso bonario e sempre
piena di premure per me, intervenne in mio aiuto.
“Che cosa c’è che non va in quella macchina?”
finse di non capire.
E per spegnere ogni discussione si mosse verso
la jeep con l’intento di salirvi sopra. Ma, sollevato il piede, piccola e
grassa com’è, non riusciva neppure a raggiungere il predellino. Ci provò una
seconda e una terza volta, prendendo anche lo slancio, ma era troppo alto per
lei. Scoppiò a ridere, anche se un po’ imbarazzata.
“Déspina, spingimi” disse
alla sorella.
Mia suocera cominciò a spingere zia Stavrulla
per il sedere. Anche questo tentativo si dimostrò inutile.
“Aspetta che provo io” disse mia suocera, un po’
divertita dalla scena che aveva offerto sua sorella.
Sollevò il piede anche lei, più volte, ma il
risultato fu lo stesso di zia Stavrulla.
“Ma che razza di macchina è questa!” ripeteva
mia suocera.
A furia di tentativi era riuscita a mettere un
piede sul predellino, le mancava il balzo finale. Zia Stavrulla prese a
spingere la sorella per il didietro. Oh oh. Invano.
“Ahi, ahi, le mie povere ginocchia!” si lamentò
mia suocera. Io non potei più trattenermi dal ridere, contagiando le due donne.
“Non possiamo prendere una macchina del genere”
disse mia suocera.
“Bisogna riportarla indietro” dissi come ovvia
conclusione “il problema è che ho dato all’agenzia l’anticipo. Non lo
restituirà tanto facilmente.”.
“Vengo io a parlare”, disse mia suocera. “Non
imbroglierà la gente del posto!”.
Fui d’accordo. E sorrisi. “Mi dovete seguire a
piedi, però” dissi.
Mia suocera, che non aveva tenuto conto di quel
particolare, allargò le braccia. “Già!” esclamò.
Io salii sulla jeep e misi in moto. Avanzai
lentamente. Dietro presero a trotterellarmi, affannate e pazienti, le due
donne. Avevo ancora qualche minuto per sognare di essere Indiana Jones. Ma
pensai che, forse, anche la semplice vita quotidiana poteva essere varia e
divertente.
(Da “Verso Est – racconti di oltre il confine
orientale e dell’Egeo” , Campanotto editore, 2006)
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